La felicità è una astronave calda

Non ricordo neanche da quanto tempo sono qui. Il tempo sembra un’unica successione di cicli in questo spazio ovattato, dove l’avvicendarsi di giorno e notte è annullato. La temperatura è confortevole, forse persino troppo alta, e mentre l’astronave si muove secondo le sue rotte per me incontrollabili io galleggio privo di peso senza aver realmente nulla da fare, se non prepararmi all’atterraggio su un pianeta ignoto. La solitudine non mi pesa, ma certo mi piacerebbe poter parlare con qualcuno di quello che mi attende, anziché ascoltare solo le melense melodie che l’astronave mi propone per intrattenermi.

S’ha un bel dire che la procedura è perfezionata fino all’inverosimile, che l’astronave è perfettamente attrezzata, che nel corso di questo viaggio il cui inizio si perde nella nebbia dei miei ricordi la mia preparazione è stata ottimale, sempre sotto il controllo dei sensori dell’astronave e di strumenti di cui non sono neanche in grado di comprendere la tecnologia. La realtà è che l’ambiente che mi attende mi è completamente estraneo, e che qualunque preparazione, anche lunga mesi (se mesi sono quelli che sto trascorrendo nel viaggio), non può davvero evitare che io mi aspetti uno choc di fronte a un sole, una gravità, un’atmosfera sconosciuti e di cui solo astrattamente posso credere che siano compatibili con la mia fisiologia.

Gli scossoni che da qualche ciclo avverto nel movimento dell’astronave sembrano annunciare l’avvicinamento all’atterraggio. Senza che io debba far nulla, i composti nutrienti che l’astronave mi fornisce sono insensibilmente cambiati per preparare al meglio il mio organismo all’uscita dall’ambiente controllato. La temperatura, se possibile, è salita di qualche decimo di grado, forse per lo stress che questa fase di avvicinamento provoca alla struttura dell’astronave. Ormai è questione di minuti, gli scossoni sono più intensi, ed è arrivato il momento di orientarmi verso il portello pneumatico di uscita. Pronto. ORA.

Lo strappo è violento, e la gravità che trovo, dopo tanto fluttuare, mi sembra fortissima, paralizzante. L’atmosfera al contrario è rarefatta, trasparente, ma più di tutto mi colpisce la luce, abbagliante, dolorosa, che sembra provenire da mille soli. Troppo, è troppo, nessuno può sopravvivere in questo posto, qualcosa è sicuramente andato storto. L’unica speranza è, accecato come sono, ritrovare il portello e rientrare, prima che le residue energie mi abbandonino. Tendo i muscoli, riempio i polmoni, per darmi forza emetto un urlo belluino, primordiale, ma sento che è troppo tardi…

«Accidenti che polmoni, il piccolino! Ora ti pesiamo…»

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